Due uomini si fronteggiano, temendo un’alba dove li attende una condanna a morte, i termini della quale sono a loro discrezione, la corda per Buf l’inniezione per Leo.
Buf, loquace, racconta del proprio passato, della sua bellissima ragazza che è scomparsa da 4 anni, del soprannome che gli deriva da Bufalo, anche se il significato di quel soprannome, datogli dagli amici che compravano i pantaloni venduti dalla sua ragazza – si facevano tutti prendere l’orlo - gli sfugge completamente.
Leo non vuole dire niente di sé ma Buf gli strappa un racconto sul padre morto in seguito al morso di una vipera a causa della sua mancanza di sollecitudine nel rispondere ai continui richiami dell’uomo.
Poi un terzo uomo, aggressivo e provocatore, sopraggiunge a disturbare il precario equilibrio tra i due. Buf gli pulisce servilmente le scarpe appena questi gliele porge, Leo se lo leva di torno colpendolo sui testicoli.
Lo sguardo con cui Stella Saccà coglie e restituisce le relazioni tra uomini, tra maschi, è uno sguardo lucido, preciso, scevro di pregiudzi maschilisti.
Un ritratto giusto del misogino genere maschile (per Buf le donne sono angelicate, per Leo tutte delle oche e delle puttane), che usa le donne per costruire la propria identità ma che va a fare esperienza altrove, sempre alla ricerca di altri maschi, gli unici considerati degni di interlocuzione, con una prontezza senza scrupoli nell’approfittarsi di chi è solo un poco più debole o meno allineato.
Al mistero narrativo che il testo ci presenta (chi sono questi uomini? Perché si trovano lì? Cosa li unisce?) che si risolve con la visione dello spettacolo, il testo intreccia e sottende un altro mistero, un’altra domanda: l’uomo - inteso come maschio e non come genere umano - sa amare? E’ capace di com-muoversi e di aprirsi all’altro e all’altra?
La risposta che questi tre esemplari di maschio danno, complessa e semplice al tempo stesso, pare suggerire che il maschio, un maschio, sa concedersi alla totalità disinteressata di un sentimento solo quando non ha più nulla da rischiare.
Cioè quando la propria morte incombe.
Quando un gesto di solidarietà e affetto tutt’altro che omoerotico (honni soit qui mal y pense), casomai omosociale (disinteressata solidarietà tra maschi) diventa spendibile perché non c’è tempo, dopo, per fare i conti con il vuoto esperienziale che, in quanto maschi, si è abituati a perpetrare.
"Mi abbandono al sentimento perché dopo non ne devo affrontarne le conseguenze".
Testo complesso e ricco di spunti (il confronto tra lo scetticismo ateo di Leo e il credo spirituale di Buf meriterebbe un discorso a parte che qui possiamo solo accennare) I leoni non si abbracciano ha il gran pregio di non offrire (as)soluzioni, ma di cogliere le connessioni e il portato implicito della condizione maschile (che, come suggerisce Leo parlando di esistenza umana, non ha una spiegazione, la spiegazione essendo proprio il fatto che non ne ha) e restituirli sulla scena.
Ben diretto (dai due interpreti “principali”) e splendidamente interpretato da Daniele Mariani e Fabrizio Colica (appena inferiore la prova di Paolo Floris che appare un poco trattenuto, come non volesse concedersi completamente al personaggio che interpreta) I leoni non si abbracciano offre un punto di partenza concreto e possibile per approntare un discorso sul maschile ancora tutto da fare e disperatamente urgente, come disperata è la voglia di vivere di questi tre condannati a morte.
Una condanna che si fa metafora della mortalità di tutti noi esseri umani e donnani.
Roma Fringe Festival 2014 I leoni non si abbracciano